La Consulta traccia il perimetro applicativo e delinea la funzione della preclusione probatoria in ambito fiscale
La Corte di giustizia tributaria di primo grado di Roma ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 3 e 4 (recte: commi quarto e quinto), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui dispone la non utilizzabilità in giudizio degli elementi informativi che, in sede procedimentale, l’amministrazione finanziaria ha richiesto al contribuente e che questi non ha esibito o trasmesso.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 137 depositata ieri, 28 luglio 2025, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità dell’art. 32 4 e 5 del DPR 600/73, chiarendo però che la c.d. preclusione probatoria sia interpretata in senso restrittivo.
Il caso
Il contenzioso riguarda una plusvalenza contestata dall’Agenzia delle Entrate a una contribuente per l’anno d’imposta 2015. Prima dell’emissione dell’atto impositivo, l’Amministrazione aveva richiesto documentazione giustificativa delle spese che avrebbero potuto spiegare l’aumento di valore dei terreni venduti. La contribuente non ha risposto alla richiesta documentale nella fase istruttoria. Solo in sede contenziosa ha prodotto fatture giustificative. L’Agenzia ha eccepito l’inutilizzabilità dei documenti tardivamente presentati, invocando l’art. 32, comma 4, del d.P.R. 600/1973.
La premessa normativa
Il comma 4 dell’art. 32 del DPR n. 600 del 1973 stabilisce che le notizie, i dati, gli atti, i documenti, i libri e i registri non trasmessi o esibiti in risposta agli inviti dell’amministrazione finanziaria non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, né nella fase amministrativa né in quella contenziosa. La norma impone inoltre che il contribuente sia informato di tale effetto contestualmente alla richiesta da parte dell’ufficio. Il comma 5 introduce un’eccezione alla preclusione: essa non opera se il contribuente, in sede di ricorso e allegando i documenti all’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dichiari di non aver potuto adempiere alla richiesta per una causa a lui non imputabile.
La tesi della ricorrente
Secondo la Corte di giustizia tributaria di Roma, la disposizione in esame si tradurrebbe in una sanzione a contenuto punitivo, assimilabile alle cosiddette “sanzioni euro-penali”, che violerebbe il rispetto dell’art. 6 CEDU sul rispetto del giusto processo
Il diritto all’azione e al giudice naturale
La limitazione imposta dall’art. 32 comprometterebbe il diritto di azione e quello di adire un giudice imparziale, previsti da:
- Art. 6 CEDU,
- Art. 8 della Dichiarazione universale dei diritti umani,
- Art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDFUE),
- Art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP),
- Articoli 24 e 25 della Costituzione italiana.
Il diritto alla pubblica udienza
La preclusione probatoria inciderebbe anche sul diritto alla pubblica udienza, compromettendo la trasparenza del processo e il controllo pubblico sull’operato giurisdizionale. Tale diritto è sancito, oltre che dalla CEDU, anche:
- dall’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti umani
- dall’art. 25 della Costituzione italiana.
Il diritto alla difesa
Infine, la norma limiterebbe il diritto alla difesa piena e effettiva, compreso il diritto a produrre prove a discarico. Inoltre, renderebbe impossibile al contribuente contrastare efficacemente l’accertamento, privandolo di strumenti fondamentali per la tutela della propria posizione giuridica.
La tesi della Consulta
La Corte Costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità sollevate sulla base dei seguenti assunti:
Limiti all’applicazione della preclusione
La Corte costituzionale sottolinea che la previsione dell’inutilizzabilità degli elementi informativi non forniti in fase di controllo deve essere interpretata in modo fortemente restrittivo.
La Corte ritiene che preclusione probatoria debba riguardare esclusivamente quegli elementi che abbiano un contenuto inequivocabilmente favorevole al contribuente. In altre parole, la sanzione non può estendersi a documenti che presentino un contenuto misto o potenzialmente sfavorevole, come ad esempio un registro contabile che riporti anche annotazioni pregiudizievoli per il contribuente.
Principio sul divieto di richiedere dati già in possesso dell’amministrazione
Nel solco dell’interpretazione restrittiva dell’art. 32, la Corte costituzionale afferma la necessità di ampliare ulteriormente il principio – già affermato dalla giurisprudenza – secondo cui non possono essere richiesti al contribuente documenti o informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria.
In particolare, tale principio assume oggi una valenza ancora più rilevante, alla luce dell’evoluzione normativa e tecnologica che ha condotto alla digitalizzazione e centralizzazione dei dati fiscali.
La Corte chiarisce che, se l’amministrazione finanziaria è in grado di reperire autonomamente certi dati attraverso le proprie banche dati, non può pretendere che sia il contribuente a fornirli. Costringerlo a farlo, infatti, imporrebbe un onere ingiustificato, con il rischio di sanzioni sproporzionate in caso di errori formali o omissioni involontarie, che potrebbero rendere inutilizzabili prove perfettamente rilevanti.
Finalità della norma sulla preclusione probatoria
Dalla giurisprudenza emerge che le disposizioni oggetto di censura sono concepite per promuovere un confronto anticipato tra contribuente e amministrazione finanziaria, finalizzato a chiarire preventivamente le rispettive posizioni e, così facendo, evitare inutili contenziosi, risparmiando risorse economiche e procedurali. In questo contesto, il contribuente ha la possibilità di rispondere alle richieste e contribuire attivamente alla ricostruzione dei fatti, oppure di non rispondere e attendere l’esito dell’accertamento.
Partendo da queste premesse, la Corte ritiene con sentenza n. 137 del 28 luglio 2025, che le questioni di legittimità non siano fondate, nella misura in cui le norme in esame risultano coerenti con il nuovo approccio costituzionale al rapporto tributario, che ha superato le visioni stataliste del passato – incentrate su un rapporto gerarchico e unilaterale tra Stato e cittadino – per abbracciare un modello fondato sulla solidarietà e sulla collaborazione, in cui il contribuente è parte attiva e responsabile all’interno della comunità.
Tuttavia, solo se reinterpretata e limitata nei suoi effetti, la norma oggetto di censura – sottolinea la Corte con pronuncia n. 137/2025 – può trovare una collocazione coerente all’interno del più ampio percorso evolutivo che caratterizza i rapporti tra autorità pubblica e cittadino-contribuente.