La Cassazione, nella sentenza n. 21194/2023 ha precisato che, ove si provi il pieno inserimento di un soggetto nell’organizzazione di una società – evidenziandone l’esercizio continuativo di rapporti con i lavoratori, i finanziatori e i clienti – si individua un amministratore di fatto della stessa che risponde, quale autore principale, anche del reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 del DLgs. 74/2000.
È esso, infatti, a risultare il titolare effettivo della gestione sociale e, quindi, il soggetto nelle condizioni di compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, quale prestanome, può essere responsabile, a titolo di concorso, per omesso impedimento dell’evento ex art. 40 comma 2.
Per affermare la responsabilità penale derivante dall’omessa dichiarazione di un amministratore di fatto, però, è necessario accertare accuratamente che vi siano i presupposti per la sussistenza di tale ruolo ( ossia che si tratti di un amministartore di fatto) e soprattutto va accertato il dolo specifico di evasione.
Nel caso portato all’attenzione della Cassazione nella sentenza n. 526 del 09 gennaio 2024, il caso pratico prospettato è il seguente.
Era stata avviata una verifica fiscale nei confronti di una srl unipersonale, in particolare della persona che risultava essere persona designata alla formale custodia della documentazione relativa allo stato attivo e passivo della società stessa a seguito della morte della legale rappresentante, nonché coniuge dello stesso. Costui era stato condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 5 del DLgs. 74/2000.
Ma la difesa aveva opposto il fatto che il giudice di merito aveva valorizzato indici (l’essere il marito della contribuente, l’aver accettato l’eredità con beneficio di inventario, l’esser stato nominato custode della documentazione contabile della società quando, peraltro, la stessa era ormai inattiva da anni, l’essersi professato a conoscenza delle vicende della compagine sociale) tutt’altro che sintomatici del concreto esercizio di poteri gestori.
Sosteneva la tesi difensiva, insomma, che non si trattasse di un soggetto qualificabile come amministartore di fatto.
I giudici di legittimità concordano con tale impianto difensivo, precisando che non ci sia stato esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione di amministartore di fatto.
In tale prospettiva, la tenuta della contabilità non costituisce, di per sé, atto gestorio dell’ente.
Né costituiscono argomenti validi a qualificare l’amminsitartore come di fatto l’esser marito della legale rappresentante della società e l’essersi professato a conoscenza delle vicende della società, posto che tale conoscenza può derivare proprio dalla circostanza dell’essere coniuge della amministratrice e non dall’indimostrato esercizio di poteri gestori.
Altro elemento contestato dalla Cassazione riguarda la prova del dolo specifico di evasione, necessario per la sussistenza del reato in questione. Infatti, come emerge con sempre maggiore frequenza nella recente giurisprudenza penal-tributaria, non si può ritenere sufficiente, ai fini della prova del dolo specifico, la mera consapevolezza dell’entità dell’imposta evasa.