La Cassazione si è espressa su un caso di licenziamento disciplinare basato su prove raccolte da investigatori
Le investigazioni del dipendente
E’ ormai pacifico che il datore possa far investigare il proprio dipendente privato, per effettuare controlli quando abbia sospetto che questi commetta degli illeciti. Chiaro come, però, l’attività di vigilanza a tutela del partrimonio aziendale non può anadre oltre quello che è il limite del rispsetto della riservatezza e della dignità del lavoratore. Il datore può rivolgersi ad agenzie investigative, ma i controlli riiguardanti l’attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti illeciti escludendo che l’oggetto dell’accertamento sia l’adempimento, la qualità o la quantità della prestazione lavorativa.
Per il trattamento dei dati personali della persona oggetto di indagine (cd. “target investigativo”), l’investigatore privato può fruire dell’esimente prevista dall’ex art. 24 d. lgs. 196/03 rispetto all’obbligo di acquisizione del consenso preventivo stabilito dall’ex art. 23 stesso codice (oggi Considerando 47 e 52 GDPR 679/2016), applicabile allorquando si intenda tutelare un proprio od altrui diritto in sede giudiziaria.
Le prove raccolte dagli investigatori
Può capitare, però, che l’investigatore incaricato abbia necessità di avvalersi di altri investigatori. In tal caso, è indispensabile che i nominativi di eventuali altri professionisti coinvolti nell’indagine siano indicati nell’incarico all’atto del conferimento, o successivamente allo stesso qualora l’esigenza sia sopravvenuta.
Tale mancanza inficia il mandato e comporta, di conseguenza, l’inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 11, co. 2, d.lgs. n. 196/2003, dei dati raccolti da soggetti non legittimati a farlo. L’autorizzazione n. 6/2016 del Garante per la protezione dei dati personali, registro dei provvedimenti n. 528 del 15/12/2016 prevede, infatti, che “l’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e non può avvalersi di altri investigatori non indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico oppure successivamente in calce ad esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico“, come anche ribadito dall’articolo 8, comma 4, del provvedimento del garante n. 60 del 06/11/2008, allegato A.6 al d.lgs. n. 196/2003.
Il caso giudiziario
Con la sentenza n. 28378/2023 la Cassazione si è occupata di una vicenda legata ad un licenziamento disciplinare basato su prove raccolte da investigatori privati.
Nel caso in questione, non essendo stati indicati in calce alla lettera di incarico, neppure successivamente, i nominativi degli investigatori esterni a quello originariamente incaricato, viene meno la utilizzabilità della relazione investigativa e dei dati in essa evincibili.
Oltre alle intuibili conseguenze nello specifico giudizio, gli investigatori “A” e “B” potrebbero essere sanzionati dalle rispettive Prefetture per violazione degli adempimenti relativi al mandato tra agenzie; essere citati dinanzi al Garante privacy, il primo per aver violato il divieto di diffusione dei dati personali, ed il secondo per illecito trattamento a seguito di omessa informativa. Essi potrebbero inoltre essere chiamati a rispondere dei danni subiti dal committente a seguito della inutilizzabilità delle prove raccolte (che ragionevolmente porterà all’annullamento del licenziamento), in quanto tale evento è stato determinato da una loro negligenza professionale, vale a dire dal mancato rispetto della normativa di settore in materia di investigazione privata e di tutela dei dati personali.