Come è noto, nel nostro ordinamento vige il principio generale della libera concorrenza tra le imprese sul mercato, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.
La principale norma del nostro ordinamento che disciplina la concorrenza sleale è l’art. 2598 c.c. Esso vieta la realizzazione di condotte di concorrenza sleale che consistono in:
- atti di confusione con i prodotti o servizi di altro concorrente;
- atti denigratori o di appropriazione di pregi nei confronti di prodotti o servizi di altro concorrente;
- altri atti non conformi alla correttezza professionale e idonei a danneggiare un concorrente.
2.1. Il rapporto di concorrenzialità
Presupposto soggettivo della concorrenza sleale è il rapporto di concorrenzialità tra il soggetto agente (soggetto attivo) e il soggetto che subisce la concorrenza sleale (soggetto passivo).
Ad esempio, gli imprenditori devono infatti offrire nello stesso ambito di mercato beni o sevizi rivolti alla stessa clientela o a soddisfare bisogni identici o simili.
Tre sono i presupposti di un rapporto di concorenzialità tra le imprese;
- l’ambito territoriale, cioè l’area ove l’impresa ha concrete possibilità di espandersi (c.d. mercato di sblocco); a tal proposito, deve essere valutato sia il mercato attuale che quello potenziale: con la conseguenza che un rapporto concorrenziale fra due imprese è ritenuto esistente anche quando, pur operando esse in ambiti territoriali diversi, vi sia la concreta possibilità per l’una di accedere al mercato in cui opera l’altra (c.d. concorrenza potenziale territoriale);
- il profilo merceologico, in base alla possibilità che l’oggetto dell’impresa di una delle parti possa rappresentare una possibile futura evoluzione dell’attività dell’altra;
- l’aspetto temporale, in relazione a soggetti che non abbiano ancora avviato ovvero abbiano sospeso in modo non definitivo l’attività ovvero quando sia stata avviata la sola fase organizzativa.
3. La concorrenza sleale per confusione
L’art. 2598 n. 1 c.c. dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
- usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri; oppure
- imita servilmente i prodotti di un concorrente; oppure
- compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente.
Non tutti i segni che caratterizzano i prodotti o i servizi di un’impresa sono idonei a generare un’effettiva confusione con quelli di un’altra concorrente. Affinché ciò accada, è necessario che i segni imitati siano:
- nuovi, in quanto immessi nel mercato prima degli altri;
- dotati di capacità distintiva, cioè concretamente idonei a distinguere i prodotti o i servizi dell’impresa da quelli (simili) di un’altra; non vi è capacità distintiva, ad es., se il segno consiste in una denominazione generica o indicazione descrittiva del prodotto;
- noti, cioè concretamente percepiti dal pubblico cui il prodotto/servizio è destinato come riconducibili ad una specifica impresa; tale requisito si acquista con l’uso continuativo e ininterrotto del segno sul mercato.
La seconda fattispecie di condotte di concorrenza sleale per confusione concerne l’imitazione servile dei prodotti di un concorrente, ovvero la riproduzione della forma esteriore del prodotto di un concorrente, tale da ingenerare confusione.
4. La concorrenza sleale per denigrazione e vanteria
L’art. 2598 n. 2 c.c. dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
- diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito; oppure
- si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente.
Le fattispecie di denigrazione più ricorrenti sono:
- la comparazione con i prodotti o i servizi di un’altra impresa (ad es. quando vengono utilizzate espressioni come “il mio prodotto è migliore del suo” o “il suo prodotto è peggiore del mio”); la pubblicità comparativa illecita, cioè ingannevole, è vietata e sanzionata anche ai sensi del lgs. n. 145/2007;
- la c.d. pubblicità iperbolica, cioè la definizione del proprio prodotto come il solo e unico ad avere determinate caratteristiche o qualità; l’auto attribuzione di pregi provoca infatti nel pubblico l’idea che gli stessi non siano presenti nei prodotti dei concorrenti quindi, indirettamente, getta discredito su questi. La magnificazione del proprio prodotto è tuttavia considerata lecita qualora sia talmente esagerata da non essere credibile dai destinatari del messaggio, anche se denigra implicitamente i prodotti altrui;
- la diffusione di notizie volte a gettare discredito sulla solidità commerciale di un concorrente (ad es., sbandierando le sue difficoltà finanziare oppure la sua non adeguata esperienza o puntualità), anche nel caso in cui le notizie divulgate siano vere, purché la divulgazione venga effettuata in maniera tendenziosa e scorretta.
5. Le altre fattispecie di concorrenza sleale
Ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., compie atti di concorrenza sleale anche chiunque utilizzi, direttamente o indirettamente, ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
- la contrarietà alla correttezza professionale, interpretata dalla giurisprudenza prevalente con riferimento ai principi etici generalmente seguiti dagli imprenditori;
- l’idoneità a danneggiare il concorrente; a tal fine la giurisprudenza ritiene sufficiente che l’atto sia idoneo a produrre il danno, indipendentemente dal fatto che il danno effettivamente si verifichi (illecito di pericolo), elemento quest’ultimo che rileva solo ai fini risarcitori.
Rientrano in tale categoria generale di condotte illecite:
- il mendacio concorrenziale e la pubblicità ingannevole;
- lo storno di dipendenti;
- la concorrenza di ex dipendenti e collaboratori;
- la sottrazione di segreti aziendali e informazioni riservate;
- ribassi di prezzo e vendite sottocosto (predatory pricing);
- il boicottaggio;
- la violazione di esclusiva;
- la concorrenza parassitaria;
- la violazione di norme pubblicistiche.
5.1. Il mendacio concorrenziale e la pubblicità ingannevole.
La pubblicità menzognera costituisce una condotta di pubblicità ingannevole, sanzionata dal D.lgs. n. 145/2007. Essa può tuttavia costituire anche una condotta di concorrenza sleale, rientrante appunto come tale nell’ambito applicativo dell’art. 2598 n. 3 c.c. Quando invece il messaggio pubblicitario riguarda la promozione di beni e servizi offerti al consumatore, si applicano gli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo, in tema di pratiche commerciali scorrette.
Si ha mendacio concorrenziale nel caso in cui venga inviato qualsiasi messaggio rivolto al pubblico dei consumatori che sa idoneo ad indurli in errore, facendogli compiere scelte che altrimenti non avrebbero fatto. L’inganno deve quindi influire sulle scelte d’acquisto del consumatore medio, ovvero avere ad oggetto fatti specifici attinenti alle caratteristiche dei prodotti, la loro natura e composizione, il metodo e la data di fabbricazione, la quantità, etc.
Sono invece ritenute dalla giurisprudenza generalmente lecite, in quanto inidonee ad ingannare il consumatore medio, le vanterie generiche, le affermazioni iperboliche, le palesi esagerazioni prive di apprezzamenti screditanti nei confronti dei concorrenti (dolus bonus).
Una particolare ipotesi di inganno pubblicitario che investe non già il contenuto del messaggio, ma la sua fronte, è quella della pubblicità occulta, che si ha quando i messaggi pubblicitari sono presentati come messaggi effettuati dalla redazione di un giornale, oppure con il product placement, consistente nell’inquadrare il prodotto pubblicizzato in maniera apparentemente casuale in scende di film o programmi televisivi. Tale forma di pubblicità è espressamente vietata dall’art. 5 del D.lgs. n. 145/2007, il quale richiede che la pubblicità debba essere chiaramente riconoscibile come tale, vietando ogni forma di pubblicità subliminale.
5.2. Lo storno di dipendenti (rinvio)
Un’altra fattispecie di concorrenza sleale rientrante nell’ambito dell’art. 2598 n. 3 c.c. è il c.d. storno di dipendenti, ovvero l’acquisizione di lavoratori operanti in un’altra impresa concorrente, effettuata con l’intento di danneggiare quest’ultima.
5.3 La concorrenza di ex dipendenti e collaboratori (rinvio)
Costituisce altresì un atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. quella dell’ex dipendente o collaboratore il quale, cessato il rapporto di lavoro o di collaborazione, eserciti attività lavorativa sfruttando informazioni riservate acquisite nel corso del suo precedente impiego o collaborazione professionale, per sviare la clientela dell’impresa.
Su questo tema ci siamo specificamente soffermati in un altro articolo, al quale si rimanda.
5.4. La sottrazione di segreti aziendali e informazioni riservate
Ai sensi dell’art. 98 del D. lgs. n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale), sono tutelabili come segreto aziendale, in quanto incluse tra i diritti di proprietà industriale, le informazioni che:
- sono soggette al legittimo controllo del detentore, sia esso l’ideatore delle stesse, sia esso colui che è autorizzato ad utilizzarle con il consenso del titolare;
- sono segrete, ovvero acquisibili solo con sforzi non indifferenti, superiori rispetto a quelli che occorrono per effettuare una accurata ricerca;
- hanno valore economico, in quanto è stato necessario anche uno sforzo economico per ottenerle, mentre analogo sforzo economico sarebbe stato richiesto presumibilmente per duplicarle;
- sono sottoposte a misure di segretezza, con particolare riferimento sia ad una protezione fisica, assicurata da sistemi di protezione adeguati, sia ad una protezione giuridica, assicurata da una informazione adeguata, data ai terzi che vengono in contatto con le informazioni, sul carattere riservato e sulle necessità che venga mantenuto tale.
5.6. Il boicottaggio.
Con il termine boicottaggio ci si riferisce a condotte finalizzate ad ostacolare o bloccare i rapporti commerciali di un concorrente, e dunque la sua presenza sul mercato.
Si distingue, in particolare, il boicottaggio primario, che si ha quando uno o più soggetti rifiutano spontaneamente, sulla base di accordi comuni, di contrattare con il terzo, dal boicottaggio secondario, caratterizzato dalla condotta di uno o più soggetti (promotori) consistente nell’indurre altri soggetti (esecutori) a non intrattenere rapporti con un concorrente dei primi (boicottato).
Il boicottaggio può essere determinato da comportamenti concordati tra più imprese (c.d. boicottaggio collettivo) ovvero da un’unica impresa (c.d. boicottaggio individuale). Una ipotesi di boicottaggio collettivo secondario si ha, ad es., nel caso in cui una pluralità d’imprenditori riuniti in una associazione di categoria impedisca che le imprese associate stabiliscano rapporti con operatori che non appartengono all’associazione stessa oppure che non soddisfano particolari requisiti unilateralmente posti dall’associazione e privi di giustificazione.
Il rifiuto a contrattare è invece ritenuto generalmente lecito, in quanto espressione di autonomia negoziale dell’impresa non monopolista. Tale condotta può diventare tuttavia illecita qualora:
- il rifiuto è irragionevole e deriva da un accordo specifico finalizzato unicamente ad estromettere dal mercato un concorrente (rifiuto concordato);
- il rifiuto proviene da un’impresa che, pur senza essere monopolista legale (nel qual caso avrebbe l’obbligo a contattare, ai sensi dell’art. 2597 c.c.), gode sul mercato di una posizione dominante, cioè tale da rendere comunque il rifiuto causa di ostacolo o esclusione dal mercato (art. 3 L. 287/1990 e 102 TFUE).
5.7. La violazione di esclusive contrattuali.
L’oggetto della manovra concorrenziale può consistere anche nel sistema di distribuzione organizzato dall’imprenditore attraverso la concessione di esclusive per la vendita di determinati prodotti.
In particolare, si è discuso sia in dottrina che in giurisprudenza circa la riconducibilità all’art. 2598 n. 3 c.c. delle fattispecie consistenti nella vendita di prodotti della stessa marca di parte di un soggetto terzo all’accordo distributivo, nella zona per la quale altro soggetto è concessionario un diritto di esclusiva. Nonostante la potenziale dannosità di simili comportamenti, secondo l’orientamento prevalente la violazione dell’esclusiva che al contempo non realizzi anche una contraffazione di marchio (violazione d’esclusiva c.d. pura), non costituisce concorrenziale sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3.
Tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto che, nel caso della distribuzione selettiva – ovvero qualora l’esclusiva venga utilizzata per creare una rete distributiva di cui fanno parte solo distributori selezionati sulla base di criteri specifici, imposti dal fornitore per garantire un alto livello quantitativo del servizio o dell’assistenza ai clienti, relativamente a prodotti particolarmente sofisticati o ricercati, che richiedono notevoli investimenti sotto il profilo del marketing o in servizi di assistenza (ad esempio i prodotti dell’alta moda o i computers) – gli atti dei terzi che, nonostante ne fossero a conoscenza, vendano i prodotti commercializzati con tale sistema distributivo ma a condizioni e modalità diverse, possono essere considerati sleali ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c.
5.8. La concorrenza parassitaria.
La concorrenza parassitaria ricorre nel caso di una costante e ripetuta imitazione di ogni iniziativa intrapresa dal concorrente, a prescindere dal rischio di confusione (altrimenti tale fattispecie viene ricondotta all’art. 2598 n. 1 c.c. (v. par. 3).
Tale illecito si consuma dunque quando vengono compiuti atti sistematicamente e continuativamente imitativi della condotta e della produzione imprenditoriale altrui, ma di tipo non confusorio. Tale condotta integra la concorrenza sleale quando l’imitazione venga effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (concorrenza parassitaria sincronica).
Costituisce concorrenza sleale parassitaria, ad es., l’atto dell’operatore il quale venda come propri i prodotti fabbricati da altri, dopo aver provveduto alla sostituzione del marchio, o utilizzi materialmente un prodotto altrui, già immesso nel mercato, per estrarne delle copie.
5.9. La violazione di norme pubblicistiche
Anche la violazione di norme di tipo pubblico (ad es. penali, fiscali, urbanistiche etc.) può integrare una condotta di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., dato che l’impresa che viola tali norme, evitando gli oneri e i costi derivanti dal rispetto di tali norme, può procurarsi un vantaggio concorrenziale illecito a danno delle imprese competitors.
La giurisprudenza è tuttavia incline ad un orientamento piuttosto restrittivo in proposito, ritenendo che la sola violazione di norme pubblicistiche non implica necessariamente, attesa la moltitudine di norme che incidono sullo svolgimento dell’attività imprenditoriale, il compimento di un atto di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 c.c. n. 3.
Occorre infatti distinguere tra norme che sono rivolte a porre dei limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, la cui violazione implica sempre un atto contrario ai principi di correttezza professionale e dunque di concorrenza sleale, e norme che impongono dei costi alle imprese operanti sul mercato ( ad es. norme fiscali, prescrizioni igienico-sanitarie, norme che subordinano l’esercizio di determinate attività imprenditoriali all’ottenimento di licenze o di autorizzazioni, implicanti comunque dei costi), la cui violazione può costituire l’antecedente di un atto di concorrenza, fronte di danno concorrenziale, ovvero servire per sostenere un ribasso dei prezzi o misure equivalenti, divenendo in tal caso la violazione della norma di diritto pubblico indirettamente la fonte di un illecito concorrenziale.
In sostanza, occorre dimostrare non soltanto la violazione di norme amministrative, ma anche il compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei diritti del concorrente, mediante malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato. In applicazione di tale principio, la giurisprudenza ha ritenuto responsabile di concorrenza sleale il gestore di una sala cinematografica che aveva notevolmente ampliato la capienza del locale, senza alcuna autorizzazione amministrativa.
6. I rimedi contro gli atti di concorrenza sleale
Il principale rimedio nei confronti di condotte di concorrenza sleale è costituito dalla inibitoria, ovvero la facoltà del soggetto leso di richiedere al Giudice la cessazione della condotta lesiva, indipendentemente dall’accertamento di un effettivo danno patrimoniale e della prova della sussistenza di colpa o dolo in capo all’impresa concorrente. È infatti sufficiente la sussistenza del solo danno potenziale, ovvero la potenziale idoneità, del comportamento posto in essere da parte del soggetto agente, a ledere il concorrente.
In proposito, l’art. 2599 c.c. prevede appunto che è possibile chiedere all’autorità giudiziaria in sede di accertamento di un atto di concorrenza sleale che ne venga impedita la continuazione o ripetizione. La tutela inibitoria ha quindi anche una funzione preventiva, essendo esercitabile anche nell’ipotesi di mero tentativo di concorrenza sleale. il ricorso alla tutela inibitoria è invece escluso quando l’illecito si è già esaurito o è decorso un lungo intervallo di tempo dall’epoca in cui è stato commesso il fatto.
L’inibitoria può essere richiesta anche in via cautelare urgente, ai sensi dell’art. 700 C.p.c., stante la necessità di far cessare nel minor tempo possibile la reiterazione delle condotte ed evitare l’aggravamento del danno; a tal fine, l’impresa lesa dovrà dimostrare l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della relativa norma, ovvero periculum in mora e fumus boni iuris.
L’art. 2599 c.c. prevede altresì che può essere richiesta al Giudice l’eliminazione degli effetti dell’atto di concorrenza sleale, ovvero la ricostruzione della situazione di fatto precedente all’illecito, a prescindere, anche in questo caso, dall’esistenza degli estremi per il risarcimento del danno come pure della ricorrenza di colpa o dolo dell’impresa concorrente.
Il Giudice potrà quindi emettere un ordine avente ad oggetto, a seconda dei casi, la distruzione o il ritiro dal commercio di prodotti o di altri oggetti (come ad es. cartelloni pubblicitari, etichette, prodotti costituenti imitazione servile, materiali pubblicitari etc.), oppure il compimento di determinati atti, come ad es. la diffusione di annunci correttivi.
L’art. 2600 c.c. prevede infine che l’impresa può chiedere il risarcimento del danno, nella duplice componente del danno emergente e del lucro cessante. Il danno emergente potrà essere costituito dalle spese sostenute per opporsi all’illecito (ad es. le spese pubblicitarie sostenute per reagire ad un’attività denigratoria, le spese necessarie all’acquisizione della documentazione probatoria dell’illecito e quelle relative all’assistenza legale extragiudiziale), oppure negli investimenti pubblicitari resi vani a causa dell’atto di concorrenza sleale. Il lucro cessante può invece essere costituito nel calo o mancato incremento del fatturato dell’impresa a causa dell’illecito, in rapporto all’utile conseguito dal concorrente.
Il rimedio del risarcimento del danno presuppone che l’atto di concorrenza sleale sia compiuto con dolo o colpa. L’ultimo comma dell’art. 2600 c.c. prevede tuttavia in proposito che la colpa, una volta accertato l’atto illecito, è presunta; in tal modo il soggetto leso dovrà dimostrare l’esistenza della condotta lesiva, il danno subìto e il nesso di causalità fra la condotta illecita e l’evento lesivo, essendo sgravato dall’onere di provare l’elemento psicologico in capo all’impresa agente.
Il secondo comma dell’art. 2600 c.c. prevede poi la possibilità che il Giudice ordini la pubblicazione della sentenza di condanna. Tale provvedimento costituisce una sanzione autonoma, mediante la quale il pubblico viene informato del ripristino del diritto leso, eliminando così gli effetti conseguenti all’illecito e prevenirne di ulteriori e futuri, indipendentemente dall’esistenza di un danno risarcibile. In proposito vi è discrezionalità del Giudice nel decidere le forme di pubblicazione, purché proporzionate ai danni conseguenti dalla condotta anticoncorrenziale.
Infine, ai sensi dell’art. 2601 c.c., qualora gli atti di concorrenza sleale realizzati abbiano pregiudicato gli interessi di una categoria professionale, la repressione degli stessi spetta anche alle associazioni o enti che rappresentino tale categoria. Nella pratica, l’iniziativa delle associazioni professionali è particolarmente frequente a difesa di denominazioni d’origine controllata, atti di denigrazione e di pubblicità menzognera o comparativa scorretta che arrecano danno ad un’intera categoria di imprese, in relazione alla vendita di prodotti a prezzi così bassi da turbare l’equilibrio del mercato o per illeciti antitrust.
Come per tutte le azioni derivanti da fatto illecito, il termine di prescrizione per l’azione di concorrenza sleale è di 5 anni a decorrere dal verificarsi del fatto illecito.