Cass. Pen., Sez. III (data ud. 24/20/2024), n. 42611
Una recente sentenza della Cassazione torna a pronunciarsi su una questione di particolare interesse in tema di responsabilità amministrativa da reato dell’Ente, rendendola applicabile anche alle società unipersonali.
Il caso
Nel caso di specie, una S.r.l. unipersonale ha impugnato la condanna per traffico illecito di rifiuti ex art. 25-undecies D. Lgs. 231/2001 sostenendo fra gli altri motivi, che non fosse sussistente un interesse dell’ente distinto da quello del rappresentato. In particolare, si censura la sentenza per non avere la Corte considerato:
- la perfetta sovrapponibilità della posizione della persona fisica imputata rispetto a quella della società ricorrente;
- la mancanza, in quest’ultima, delle necessarie connotazioni di complessità tali da far ipotizzare una difettosa organizzazione dell’ente (trattasi di una società unipersonale dal modesto capitale sociale, con la persona fisica imputata nella posizione di amministratore ed unico socio).
La decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ( Cass. Pen., Sez. III (data ud. 24/20/2024), n. 42611ritiene del tutto immune da censure il percorso argomentativo tracciato dalla Corte d’Appello in merito alla applicabilità della disciplina di cui al Decreto 231 alle società unipersonali.
Sul punto, si riporta la giurisprudenza consolidata di legittimità, che ha affermato che «in tema di responsabilità da reato degli enti, le società unipersonali a responsabilità limitata rientrano tra gli enti assoggettati alla disciplina dettata dal d.lgs. 9 giugno 2001, n. 231, essendo, a differenza delle imprese individuali, soggetti giuridici autonomi, dotati di un proprio patrimonio e formalmente distinti dalla persona fisica dell’unico socio»
Come sostenuto dalla Casszione, nella motivazione impugnata è stato correttamente posto in rilievo il fatto che la persona fisica imputata, in posizione apicale, non aveva agito nell’interesse proprio o di terzi, “poiché l’accettazione in impianto di rifiuti che avrebbe dovuto allontanare provocava alla sua società un rilevante guadagno“.
In conclusione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso in esame condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali e confermando la sentenza per tale parte.